Riflessioni, in fieri, sul potere trasformativo della cultura

Il Covid19, oltre a porre con urgenza il tema della crisi economica del comparto culturale, ha anche mostrato una crisi di senso e di visione (ci ricorda Filippo Tantillo qui ), e l’urgenza di un ripensamento del nostro modello di sviluppo. Artiste e artisti, operatrici e operatori culturali, hanno iniziato a chiedersi se e come la cultura può e potrà avere un ruolo in questo ripensamento, in che modo l’arte può fare la differenza.

“Imagine art which is capable of rekindling values of care, kindness, compassion, action-taking, social justice and cooperation. I’d like art to take a larger social dimension. Art isn’t about stagnation, conformism, fear. Art is about risk taking, resistance, empowerment and transformation” scrive Carmen Salas qui, e ancora: “In my dream, the traditional exhibition spaces and art objects (material objects) no longer exist, and artists, cultural agents and creative practitioners collaborate with citizens, communities and professionals from other sectors (scientists, farmers and politicians) to design better systems and to co-create activities and programmes that encourage creativity and bring about social change”. E questo grazie al potere trasformativo della cultura, di modificare i luoghi ma anche le persone, soprattutto in “their willingness to care for themselves and for others”.

In alcuni luoghi questo già avvenendo, e in modo evidente, ad es. nelle aree interne. Tantillo ricorda che “ai margini, tutt’altro che invisibili, gruppi di artisti si stanno impegnando a ripensare i luoghi, proiettandoli nel futuro e prefigurando un nuovo valore d’uso a spazi che l’hanno smarrito, attraverso un percorso di immersione, di astrazione, di concretizzazione”. “Da un lato sentono che nelle città le combinazioni possibili sono esaurite, che non c’è più spazio per la produzione artistica, che si sono ridotte a luoghi di consumo, che sono devastate dalla natura corrotta e megalomane del capitalismo mercantile. Dall’altro la ricerca di un linguaggio universale li porta a cercare di costruire ponti con le altre parti del paese, in un momento nel quale le diseguaglianze territoriali si vanno approfondendo, ricucendo le periferie con i centri attraverso una pratica artistica militante. Per questo gli artisti dei margini sono così importanti per chi voglia fare una politica per la rigenerazione del nostro paese devastato dalla pandemia, che abbia l’obiettivo di invertire i trend negativi che non riguardano più solo le aree interne, e combatterne l’inevitabile impoverimento”.

Anche le città in realtà, in questi anni, hanno prodotto esperienze rilevanti. Ce lo ricorda Giuliana Ciancio qui a proposito del Teatro Valle occupato: “L’esperienza del Teatro Valle Occupato in Italia ha dato vita ad una nuova mappa culturale in ambito nazionale, composta di nuovi spazi (e “neo-istituzioni”), che hanno introdotto concrete forme di politica a base partecipativa. Pensiamo ad esempio al fortunato sodalizio tra produzione culturale e Commons, ad opera di artisti, giuristi, ricercatori, professionisti della cultura e amministrazioni cittadine, che ha reintrodotto modelli giuridici che hanno messo al centro forme di mutualismo e autogoverno”. E basterebbe oggi guardare, sempre a Roma, al lavoro sul territorio portato avanti dall’Ecomuseo Casilino.

Rileva la centralità del processo partecipativo. Secondo Ciancio “novità possono essere introdotte quando: gli artisti accettano di arricchire i propri processi creativi grazie alla collaborazione con i contesti locali che li ospitano; le istituzioni culturali si pongono come facilitatori nel dialogo tra gli artisti e i cittadini promuovendo un’“azione culturale civile” (Gielen, 2015), ossia quando l’arte può far sì che le persone vivano diversamente l’ambiente circostante e si percepiscano come attivatori di una rinnovata percezione di uno spazio culturale e fisico; quando sia le istituzioni culturali che gli artisti superano l’urgenza del consegnare un prodotto finito e chiuso, ma accettano la sfida di considerare la processualità creativa come parte integrante del prodotto artistico-culturale”.

Rileva il tema dell’istruzione come segnala Marco Mazzeo qui: “In considerazione delle accentuate disuguaglianze territoriali in termini di offerta e fruizione culturale, le scuole, che coprono capillarmente il territorio, dovranno avere un ruolo centrale, trasformandosi in agenzie culturali, per favorire l’educazione dei futuri consumatori culturali e, contestualmente, diventare palestre di nuovi talenti”.  Questo è parte di una “politica di “democratizzazione culturale” laddove in Italia non possiamo considerare “superata la visione ottocentesca della cultura come un fattore di classe, innaturalmente utilizzata per distinguere e dividere, anziché unire e aggregare”, mentre Ciancio ci ricordava che tuttora è la classe media che purtroppo “indica le regole e le estetiche per l’intera comunità”. Quindi “La nuova programmazione potrebbe essere utilizzata per trasformare le scuole in agenzie culturali di prossimità”

Ma fino a dove l’arte può e deve arrivare? Fino a dove può arrivare un artista nel processo di trasformazione sociale senza rinunciare al suo ruolo primario? Salas arriva a chiedersi se non sia giusto fermarsi tutt* un momento: “I wonder if we should “pause” that impulse of creating objects and material stuff until we have a clearer idea of how we are going to continue living on this planet. Can we redirect all of that creativity towards something else? Maybe towards something that is more useful to our present communities/society?”. E forse questo non riguarda solo l’arte ma tutta la società? O l’arte dovrebbe forse illuminare una strada diversa?

E qual è il discrimine tra il civismo dell’artista e l’assunzione di un ruolo politico? Suggerisce Salas:  “Moving content online and commissioning artists/cultural practitioners to create new digital content/activities is important but, in my honest opinion, I think we should also use a bit of that money/time/energy/resources to create think tanks/work groups, etc. (where we involve institutions, artists, funders, governments and citizens) to discuss structural problems and design solid and long-lasting strategies. We don’t need an over saturation of content/activities as if there is no tomorrow”.

Questo dialogo tra artisti, comunità e istituzioni non è un dialogo facile ed ha prodotto finora risultati alterni. E’, assieme, una opportunità ed un pericolo come segnala Ciancio a proposito di Europa Creativa: “Europa Creativa ha favorito processi di cooperazione collegando città e comunità europee, dall’altro è stato un programma che probabilmente (osservandolo a distanza e nella complessità degli eventi globali) ha ricollocato la dimensione agonistica di alcune delle emergenti espressioni di politica “dal basso”, rimandandoci quindi a ciò che Gramsci ha definito come detournement (Boltanski e Chiapello, 2005). Ossia, un processo in cui l’amministrazione pubblica tende a incorporare quelle affermazioni politiche democratiche radicali che sfidano l’ordine egemonico (Mouffe, 2007) con l’obiettivo di normalizzare e di neutralizzare le potenzialità di un nuovo ordine”.

Ma se non fossero più le istituzioni a recarsi – nei casi più virtuosi – dagli artisti per stimolare o chiedere risposte? se fossero gli artisti, appunto, ad esigere con forza non un ascolto ma una interlocuzione reale con le istituzioni?

Suggerisce Tantillo: “Su di un piano più strettamente politico, per accogliere le capacità visionarie degli artisti, trasformarle in strumenti di sviluppo dei luoghi, bisogna ceder loro capacità decisionale. Bisogna avere il coraggio di investire in utopie concrete, e di accettare i fatto che in mano oggi, non abbiamo nessuna soluzione se non la sperimentazione. Messo in questi termini non siamo più di fronte ad un problema tecnico, ma a una questione che chiama direttamente in causa il potere, e porta con sé il conflitto”.

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